sabato 26 dicembre 2009

Ragnarok

03


Il principe stava percorrendo le vie della capitale a cavallo. La città e il castello erano collegati da un sentiero di montagna: il castello si trovava alto sopra un rilievo mentre la città si trovava in basso, nella valle immediatamente circostante. Il castello era una fortezza impenetrabile e impossibile da assediare, dalla parte anteriore aveva la valle con la città e un poco praticabile sentiero collegato ad essa, poco adatto alla marcia di molti soldati, nella parte posteriore aveva la foresta, fitta e oscura, dove nessuno osava avventurarsi.
Katòn sembrava un forestiero qualsiasi, un lungo mantello lo copriva dalle spalle fino ai piedi e un turbante gli nascondeva i capelli e parte del viso, non che dovesse fare le cose di nascosto, lui era il principe e in una certa misura poteva fare quello che più desiderava, solo non voleva che il Consiglio lo vedesse andare a pregare una Dea per il ritorno del padre; forse il popolo lo avrebbe acclamato, Kat conosceva bene il suo livello di religiosità, ma la stessa cosa non sarebbe valsa per il Consiglio, solo i laici ne erano ammessi e da laici non avrebbero permesso l'intervento di chissà quale divinità in una battaglia così importante, no, la vittoria doveva dipendere esclusivmente dall'abilità del sovrano.
Il Tempio di Roriath, Dea della Guerra, era ormai prossimo, Katòn smontò da cavallo e lo affidò ad uno stalliere lì vicino; faceva freddo in quella zona della città ma era un freddo innaturale, il principe pensò che si trattasse di una normale sensazione di paura, in fondo stava per chiedere aiuto alla temibile Roriath.
Entrò nel Tempio a capo chino e in rispettoso silenzio, con sè aveva portato un paio di galline morte da offrire in sacrificio, il prezzo uguale per tutti da pagare, l'edificio era enorme, la navata di colonne sembrava raggiungere il cielo, l'altare in fondo al Tempio era composto da un solo blocco di marmo nero e subito dietro c'era la statua della Dea, la Somma Roriath.
Anch'essa in marmo la statua raffigurava la Dea in una posizione solenne, ferma e immobile, con lo sguardo fisso davanti a sè, nella mano destra la sua alabarda, unica nel suo genere, formata da due lame ricurve, una più lunga e l'altra più corta, le cui punte cercavano di riunirsi, un plebeo avrebbe detto che quella forma assomigliava al numero sei, nella mano sinistra la spada, intagliata di meravigliosi fregi; la statua indossava una vera armatura d'oro decorata con piccole pietre preziose e fregi bianchi, sembrava potesse animarsi da un momento all'altro.
Katòn noc Ferac vi si avvicinò, posò le due galline sull'altare e si mise in ginocchio, con i palmi delle mani rivolte verso la Dea.
« Somma Roriath, Dea della Guerra, ti prego, ascolta la mia supplica.
Mio padre è il re di questo regno, ha sempre governato con saggezza e virtù e ha sempre operato per il bene del popolo; purtroppo un nemico è giunto, molto tempo fa, e mio padre non s'è tirato indietro, mio fratello l'ha seguito e adesso sono entrambi nel pieno di una battaglia che potrebbe essere decisiva per la fine della guerra.
Oh, Somma Roriath, io vi chiedo di fare in modo che né mio padre né mio fratello rimangano coinvolti, loro devono tornare sani e salvi e continuare a regnare su Irrfad.
Ti prego, ascolta la mia preghiera. »
Katòn alzò lo sguardo, non era successo niente, le candele non s'erano spente e la Dea non s'era manifestata per accordarglii la supplica; si diede dello sciocco, come aveva potuto pensare, anche solo per un secondo, che Roriath avrebbe accettato la sua richiesta.
Si alzò e fece per uscire dal Tempio, era tardi e al castello presto avrebbero scoperto la sua assenza, West non poteva continuare a dargli man forte ancora per molto.
« Ma come? Te ne vai di già? Non vuoi sentire quello che io ho da proporti? »
Il principe si fermò ad un passo dalla soglia, una voce, una voce di donna l'aveva bloccato, dietro di sé non c'era nessuno, sicuramente si era trattato di uno scherzo a suo danno.
« Secondo te io sarei uno scherzo? »
Si fece freddo, Kat tremava e il vapore usciva dalla sua bocca, aveva paura di quello che poteva accadere.
« Hai terrore di me? Eppure sei stato tu stesso a venire nella mia casa a supplicare il mio aiuto. Che c'è? Ti sei già rimangiato tutto? Perché non parli? Il gatto t'ha mangiato la lingua? »
Il principe volse il suo sguardo alla statua, non era cambiata in quei pochi secondi quindi non poteva aver parlato, il giovane fu preso dalla smania di correre via, di riprendersi il cavallo e raggiungere il castello, dove sarebbe stato al sicuro.
« Illuso, il tuo castello non è così invincibile come credi, io posso entrare e uscire quando voglio.
Adesso basta con i giochetti, voltati e inginocchiati a me, la Somma Roriath. »
Kat esitò un attimo, lentamente girò su stesso e finalmente la vide, vide la Dea della Guerra di fronte a sé, bella e imperturbabile come solo lei poteva essere, i lunghi capelli rossi che fluttuavano dietro la schiena, gli occhi del colore del sangue che lo fissavano divertiti.
« Io sono Roriath, Somma Dea della Guerra, tu sei venuto da me per chiedermi un favore, ebbene, ho deciso di esaudire la tua richiesta ma c'è un prezzo da pagare. »
Katòn deglutì quel poco di saliva che gli si era creata in bocca, osservò con attenzione e desiderio la donna che gli si presentava davanti: era molto diversa da come era raffigurata nella statua; in primo luogo non indossava l'armatura ma vestiva un abito azzurro, stretto in vita da una fascia viola e scollato tanto da far intravedere la linea dei seni, dalla vità in giù l'abito era più corto dalla parte sinistra mentre la parte destra arrivava fino ai piedi, racchiusi in sandali di pelle le cui stringhe si intrecciavano fino poco sotto il ginocchio; ai polsi una miriade di bracciali in purissimo oro tintinnavano ad ogni suo movimento e un piccolo ciondolo le cadeva dal collo a rimarcare il prosperoso seno.
« Non ti conviene far pensieri sconci su di me, ne va della tua stessa vita. » lo ammonì severamente la Dea.
Il principe distolse lo sguardo, sogno o realtà quello che gli si presentava agli occhi? Roriath voleva davvero esaudire il suo desiderio o era giunta dal mondo divino unicamente per prendersi gioco di lui?
La Dea si posò a terra e iniziò a camminare in cerchio intorno a Kat, con le braccia conserte lo studiava da cima a fondo, il giovane non aveva l'aspetto del soldato, conosceva molte cose, sapeva come comportarsi con ambasciatori e sovrani, forse Roriath aveva trovato la persona che facesse al caso suo.
« Katòn noc Ferac al Irrfad... Hai un nome troppo lungo, se dovessi chiamarti quando sei a due passi da me è probabile che tu sia già andato via quando ho finito di pronunciare l'ultima lettera del tuo nome. Di', ce l'hai un qualcosa di più corto? »
« Kat... Kat è il mio nomignolo. »
« Molto bene, Kat. Farò in modo che tuo padre e tuo fratello escano vivi da quella battaglia, la condizione che io pongo è questa: fra un anno a partire da oggi dovrai diventare il mio nuovo araldo. »
Il principe sbarrò gli occhi, di cosa se ne faceva una Dea di un araldo?
« Di cosa me ne faccio ti domandi? La risposta è molto semplice, ne ho bisogno per quando inizierà il Ragnarok. »
Katòn noc Ferac, reggente del regno di Irrfad, rimase a bocca aperta per lo stupore, il Ragnarok stava per iniziare, la fine del mondo era vicina.

mercoledì 23 dicembre 2009

Ragnarok

02


« Maestà, le sue mucche continuano ad invadere le mie terre e a mangiare il mio raccolto, lui sostiene che non riesce a controllarle e che devo portare pazienza, ma le sue mucche mangiano il raccolto con cui sfamo la mia famiglia! Cosa dobbiamo fare Maestà? »
Katòn noc Ferac, reggente del regno di Irrfad, colui che regna in nome del sovrano Gothan noc Hjad, stava ascoltando l'ultima supplica del postulante posto in ginocchio di fronte a lui, si trattava di una questione banale, facilmente risolvibile, ma nonostante ciò i due contadini avevano chiesto l'aiuto del re.
I due uomini erano proprietari di terre confinanti, uno viveva di raccolta, l'altro di allevamento, il bestiame era solito oltrepassare le terre per mangiare i frutti del raccolto del postulante lasciando così la sua famiglia senza di che vivere, Kat aveva ascoltato attentamente la supplica del contadino e sapeva esattamente come agire.
« Quello che dovete fare è questo: recintate le vostre terre uomini, così tu non dovrai temere per il tuo raccolto, » disse rivolgendosi al postulante « e tu non dovrai preoccuparti del tuo bestiame. »
West stava ad osservare appoggiato ad una colonna in penombra posta dietro il seggio reale, nascosta dagli enormi drappi che partivano dal soffitto fino ad arrivare al pavimento; era passato un mese da quando il principe gli aveva chiesto aiuto e lui non gliel'aveva negato, il capitano delle guardie si era autonominato segretario particolare di Katòn. Il Consiglio aveva avuto qualcosa da ridire a riguardo sul loro rapporto ma Katòn li zittì asserendo che per il compito che suo padre gli aveva affidato aveva bisogno di tutte le persone di fiducia e il capitano ne faceva parte.
« L'udienza è finita. » proclamò il ciambellando mentre ordinava alle guardie di far sgomberare la sala.
Katòn noc Ferac si alzò dal trono e si incamminò in prossimità dell'uscita posta dietro i drappi, sicuro di trovare West ad aspettarlo, non si sbagliò, l'amico era lì, come sempre, e gli faceva segno di sbrigarsi, aveva letto la sua agenda e per quel giorno il principe era pieno di impegni.
« No aspetta, chi ti ha dato il permesso di sbriciare nella mia agenda? Aaaaaaaaaaaaa! » esclamò Kat letteralmente trascinato per un braccio da West.
« Sbrigati, non hai tempo di lamentarti, ora devi andare ad approvare il progetto per il ponte sul Grande Fiume, poi a pranzo dei ricevere gli ambasciatori di Hollas e nel pomeriggio devi dedicarti alla corte. Ah, ricordati che stasera c'è il Ballo di Primavera, non puoi assolutamente mancare. »
Il capitano parlava con estrema serietà, come se si trattasse di normali doveri che competono ad un soldato, Katòn rise leggermente e si liberò dalla presa dell'amico.
« Torna a fare il capitano delle guardie, non sei il mio segretario. » gli disse fermandosi un attimo per massaggiarsi il polso.
« Lo sto facendo per il bene di questo regno, se non avessi avuto bisogno di me non saresti strisciato a chiedere il mio aiuto. »
Touché. Il principe non osò rispondergli e lasciò che lo portasse verso il luogo del suo prossimo affare.


« Sua Maestà il principe Katòn noc Ferac al Irrfad, reggente del regno. »
Il ciambellano annunciò alla corte l'arrivo del principe, senza di lui il ballo non poteva avere inizio, c'era bisogno dell'approvazione del reggente. Kat fece la sua comparsa nell'ammirazione totale della corte, le fanciulle in età da marito lo guardavano speranzose, nonostante il principe avesse compiuto da poco i vent'anni ancora non aveva scelto la sua futura moglie, un barlume di speranze per tutte le ragazze nobili.
Katòn si guardò intorno, era a disagio ma cercava di non darlo a vedere, era la prima volta che sentiva acclamare il suo nome completo da così tanta gente; Katòn noc Ferac al Irrfad, Katòn il Pacifico di Irrfad. Insieme a suo fratello maggiore era l'ultimo discendente di Damos noc Yutas, il Possente, primo re di Irrfad che diede il nome al regno.
Alcuni specchi riflettevano la sua immagine, statura normale, occhi grigi e capelli neri come la notte, leggermente ondulati e corti, fisico asciutto e portamento regale, questo era quello che la corte vedeva in lui.
Con la coda dell'occhio vide West parlare con due dame, non c'era di che stupirsi, il capitano delle guardie era un uomo molto affascinante, i capelli biondi come l'oro incorniciavano il suo viso, illuminato da due iridi di smeraldo, era forte e muscoloso e l'alta uniforme che indossava per le occasioni particolari lo facevano sembrare ancora più alto rispetto alla sua enorme statura, fra le ragazze di basso ceto riscuoteva un grande successo.
Katòn si sedette sul trono e con un cenno della mano diede il via alle danze, la tradizione voleva che l'erede non ancora sposato dovesse ballare con tutte le fanciulle nobili che partecipavano al ballo così da poter scegliere colei che un giorno sarebbe stata sua moglie; Kat non sapeva ballare bene, ma non si sottrasse ai suoi doveri.

Il ballo era terminato già da un paio d'ore ma Kat non ne voleva sapere di dormire, in tutta la giornata non aveva avuto il tempo di pensare a quella che era la questione più urgente di tutte: la battaglia contro il regno nemico. Dopo più di un mese ancora suo padre e suo fratello non gli avevano fatto pervenire un messaggio, era preoccupato per le loro sorti.
« C'è qualcosa che ti turba? »
Katòn si voltò di scatto, non credeva di trovare West per i corridoi del castello a quell'ora della notte.
« No, niente in particolare, sempre la solita cosa... A proposito, che ci fai ancora a giro? Non dovresti essere di guardia stasera? »
« Come? » il capitano sembrava stupito dalla parole del principe non aveva idea di cosa stesse parlando.
« In che senso "di guardia"? » chiese per togliersi tutti i dubbi.
« West! E tu dovresti essere il capitano delle guardie del castello!? Tanto vale appendere un cartello con su scritto "Ladri e Assassini, Benvenuti!" »
I due si fisarono per qualche secondo, la comicità della situazione era troppo alta per rimanere seri, una fragorosa risata risuonò in quel corridoio.
« Ah sì, il turno di guardia... Be' devi sapere che essere il capitano comporta molti vantaggi, per esempio sei tu che decidi i turni e sia il caso che per stasera ho fatto a cambio con un commilitone, non potevo perdermi questo ballo per niente al mondo. » spiegò West tornando serio.
« Non volevi perderti il ballo o le ragazze con cui hai chiacchierato per tutto il tempo? »
La frecciatina di Kat era maliziosa ma non intendeva ferire l'amico; West, dal canto suo, era abituato a frasi del genere, aveva acquisito una certa fama come donnaiolo e parole come quelle non gli facevano né caldo né freddo.
« E te? Quand'è che la smetterai di perdere il tuo tempo sui libri e non ti dedichi ad una bella donna? Non è che a te piacciono gli uomini vero? »
« Ma sei scemo!? »
« Era per saperlo... Tornando seri, se sei preoccupato per tuo padre e tuo fratello perché non vai a pregare un Dio? Dicono che gli Dei esaudiscano le preghiere a loro rivolte. »
« E a chi dovrei rivolgermi secondo te? »
West lo fissò negli occhi divertito, il principe era un pozzo di sapere ma era ingenuo e poco sveglio come un ragazzino a volte.
« Ma alla Dea della Guerra no? »

lunedì 21 dicembre 2009

Ragnarok

[OT: Prima puntata della prima novel che ospito in queste terre. Di norma non pubblico prima di aver completato la storia, ho sempre il timore di non riuscire a finirla, ma per questa volta voglio fare uno strappo alla regola, voglio vedere fino a che punto arriverò.]

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01


La neve cadeva sul castello reale di Irrfad, cadeva leggera, ricopriva tutta la natura circostante l'enorme complesso, ogni tanto dagli alberi cadeva un mucchio di neve rompendo il silenzio della foresta; gli animali erano in letargo, al riparo nel caldo delle loro tane, anche il principe era al caldo nel castello, ma un grave affare lo turbava, gli rendeva le notti insonni.
La guerra stava imperversando già da due anni, il sovrano del regno vicino aveva dichiarato guerra al padre del ragazzo per conquistarne alcune terre, ma il re di Irrfad non cedette alle richieste e preparò il suo esercito; da allora molte battaglie furono vinte e altre perse, nessuno dei due regni aveva intenzione di arrendersi; l'ultima battaglia avrebbe potuto essere quella decisiva, per questo il re Gothan e il suo erede Frey, fratello maggiore del ragazzo, erano partiti insieme all'esercito, era loro preciso volere partecipare come i loro soldati, essere in prima linea per vedere la disfatta del nemico.
Il giovane principe era inquieto, finché non sarebbero ritornati lui era il reggente del regno, una carica troppo stretta per lui, abituato fin da piccolo a visitare biblioteche ed a frequentare precettori che gli trasmettessero lo scibile umano; non era mai stato portato per la guerra, mal maneggiava una spada, poco s'intendeva di strategie militari e meno che mai era desideroso di fare carriera nell'esercito; data la sua posizione di figlio cadetto reale si sarebbero potuto spalancare per lui le porte dell'esercito, sarebbe potuto diventare un Sommo Generale in brevissimo tempo, forse non ci sarebbe neanche stato bisogno di fare esperienza sul campo, ma la sua decisione fu irremovibile, non desiderava l'esercito, preferiva di gran lunga i templi degli Dei e delle Dee, le biblioteche, i luoghi di sapere.


Era ormai una settimana che il re suo padre e il principe ereditario erano partiti e ancora non erano pervenuti loro messaggi, il principe stava studiando libri di politica nelle sue stanze quando un soldato aprì la porta ed entrò dentro.
« Mi sembrava di aver ordinato espressamente che nessuno disturbasse i miei studi. » disse il ragazzo senza voltarsi o distogliere lo sguardo dal libro.
« Io non sono nessuno, mio caro Katòn noc Ferac, io sono il capitano delle guardie del castello nonché tuo migliore amico. Sono venuto a dirti che non puoi continuare così, devi farti vedere, i postulanti chiedono di te, non del tuo Consiglio di Stato. »
Kat si massaggiò gli occhi e chiuse il libro, si alzò dalla sedia e andò incontro al capitano sorridendogli.
«Da quant'è che non mi chiamavi con il mio nome completo? » gli chiese invitandolo a mettersi a sedere su una delle tante sedie del suo studio.
« Da sempre, è da quando ci siamo conosciuti per la prima volta che ti ho sempre chiamato con il tuo nomignolo, ma sai, adesso sei il reggente, l'equivalente di Sua Maestà, non posso permettermi di chiamarti semplicemente Kat, ti dovrò chiamare almeno con il nome completo. » rispose allegramente il capitano.
Katòn chiamò una cameriera e ordinò che fossero serviti del té con biscotti e che li lasciassero in pace, dovevano discutere di importanti questioni.

Katòn noc Ferac conobbe West al Denìo quando aveva appena sei anni, il ragazzo aveva cinque anni in più del principe e anche se era grande abbastanza da capire che gli doveva obbedienza, non aveva mai usato formule o titoli onorifici nei confronti del principino, il suo rispetto se lo sarebbe dovuto guadagnare in qualche modo.
Il principino era intimorito dal ragazzo più grande, sapeva che gli sarebba bastato un niente per fargli del male così mise subito in avanti le mani.
« Non voglio farti del male quindi tu non ne farai a me, va bene? » disse semplicemente il piccolo Katòn.
Da quel giorno West prese a chiamarlo Kat, un nomignolo carino ma pur sempre irrispettoso, chi era lui per poter affibbiare al principe un tale nome? Katòn però non aveva mai dimostrato disapprovazione, al contrario aveva sempre mostrato una certa ammirazione nei confronti di West, era lui quello forte e coraggioso, un modello a cui poter arrivare.
Poi con il passare del tempo Kat si era reso conto che non sarebbe mai potuto diventare come lui, ma questo non minò la loro amicizia; avevano preso strade diverse ma avevano continuato a sostenersi a vicenda.

West finì di sorseggiare il suo té lentamente, voleva gustarsi il caldo sapore dell'erbe usate; sospirò nel posare la tazza, quello per cui era andato da Kat non era un facile argomento.
« Ehi Kat, lo sai che adesso sei il reggente vero? » domandò appoggiandosi con i gomiti sulle ginocchia.
« Certo che lo so, ingenuo s'intende ma fino a questo punto... »
« Esatto, proprio fino a questo punto, tu sostituisci tuo padre, comandi in nome suo, sai cosa vuol dire questo? »
« Sì, lo so, non importava che tu venissi a dirmelo. »
« E invece importava! Girano già voci di mal contento sul tuo operato, te ne rendi conto? Dopo solo una settimana, è inaudito! Io lo capisco che non sei stato cresciuto con la convinzione di dover prendere il posto di tuo padre, ma è chiederti troppo recarti nella Sala delle Udienze, una volta al giorno tutti i giorni? »
L'atmosfera si fece tesa, i due ragazzi si fronteggiavano con gli occhi, senza dire una parola, Kat sapeva che l'amico aveva ragione, lo sapeva fin troppo bene, ma cosa poteva fare lui? Non aveva mai avuto a che fare con le questioni di stato, erano un affare troppo delicato, lui regnava in nome di suo padre, se avesse compiuto qualche azione o detto qualcosa di inanerrabile, la vergogna e il disonore sarebbero ricaduti sul re, non sulla sua persona.
West si alzò in piedi, era stanco di aspettare una risposta che non sarebbe mai arrivata, si diresse verso la porta e si fermò sulla soglia. In quel momento appariva come un vero e proprio soldato, aveva la mano destra appoggiata allo stipite della porta mentre la sinistra era calata sull'elsa della sua spada.
« Fa' come ti pare, io ti ho avvertito, ho fatto più di quello che dovevo fare. Sappi solo una cosa: so cosa pensi e ti dirò, se non lo fai, se non tenti, non sei degno di farti chiamare Principe. »
Il Principe rimase solo nelle sue stanze, solo a riflettere su quello che gli aveva appena detto il capitano delle guardie del castello, non aveva di certo tutti i torti; non era mai stato un tipo molto orgoglioso, non ebbe problemi ad inseguire per i corridoi del castello il suo migliore amico e chiedergli di aiutarlo in quell'impresa.

martedì 15 dicembre 2009

Desiderio di Vendetta

Seguito de "Desiderio di Morte" [Death Note: l'umano il cui nome verrà scritto sul Death Note morirà.]
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"Ancora un altro giorno soffrendo per colpa sua, dal giorno della sua morte Lui non è stato più lo stesso, ha iniziato a interessarsi di me sempre meno, a volere sempre e solo una cosa sola, mi ha trattato come un pupazzetto.
In fondo dalla sua morte non è cambiato poi molto.
Ora però sono stanca, stanca del suo comportamento, stanca del suo pessimo carattere, stanca delle sue solite minacce di tradimento.
Ho già provato a mandarlo a quel paese un paio di volte ma Lui, tutte le volte, ritorna, con la sua aria da cucciolo bastonato e io, tutte le volte, da brava ingenua che crede ancora nell'amore lo riaccetto per come è.
Ancora una volta mi ritrovo ad ascoltare il mio iPod distesa tranquillamente sul letto, ancora una volta la prima canzone in riproduzione casuale è la solita di quel giorno.
Mi alzo e vado a riprendere il mio Death Note, lo tolgo dalla scatola e dalla copertina e inizio a sfogliarlo con uno strano senso di colpa che mi attanaglia.
Alla fine eccolo lì,quel nome, il solo e unico che abbia mai scritto sul mio prezioso gadget"


Perchè non scrivi un altro nome accanto a quello?

"Ancora quella voce, la voce di me stessa"

Lo so che in fondo è quello che vuoi.

No, non è quello che voglio.

E cos' è che vuoi? Farti trattare come ti sta trattando ora?

Non mi sta trattando in nessun modo.

Hai ragione, ti sta semplicemente ignorando, poi quando gli farai comodo ti ricercherà e dopo starai più male di prima, è questo quello che vuoi?

No.

E allora? Perchè esitare?

Perchè dovrei seguire ancora una volta il tuo consiglio?

Lo hai già fatto una volta e non ti è dispiaciuto.

Non lo rifarò una seconda, non mi farò manovrare da chi dice di starmi accanto e poi sparisce!

Ma io non sono mai sparita, sono sempre stata con te, hai forse dimenticato che noi due siamo la stessa persona?

Non l' ho dimenticato.

E allora perchè mi fai queste domande così sciocche?

Dov' eri quando avevo bisogno di te!?

Io ero con te.

Bugiarda!

Io compaio solo quando la tua volontà è al limite, quella volta non ce la facevi più e questa volta è lo stesso, ti si legge negli occhi che vorresti ucciderlo con le tue mani se fosse possibile.

Non è vero.

Non mentire a te stessa, forse lo sai meglio di me, che so tutto di te.

Non voglio ucciderlo.

E cosa vuoi fare allora?

Voglio farla finita con Lui.

Ti riesce così difficile lasciarlo una volta per tutte?

Lui torna sempre da me, sa che sarò sempre lì ad aspettarlo, che non lo mollerò.
Da quando Lei è morta io gli sono sempre stata vicina, sa che per me Lui è importante e se ne sta approfittando.


Ma non sa che te sei stufa di questo atteggiamento.

Esatto.

Sente tanto la mancanza di Lei?

Non fa che nominarla tutte le sante volte, lo odio per questo.

E perchè non fargli un favore allora?

Perchè non voglio farmi carico di un altro omicidio.

Ricordati che soffre di cuore, mica deve essere per forza un omicidio.
Non puoi continuare così, non possiamo!
Tu conosci la soluzione e sono anche sicura che non piangerai per lui; sarai anche tanto buona e cara ma io ti conosco, dentro sei fredda come un iceberg.


E cosa dovrei fare? Lasciarlo e poi scrivere il suo nome?

Esattamente, anzi, meglio ancora prima scrivere il suo nome e poi lasciarlo... Non ti alletta l'idea di saperlo morire solo come un cane?

Sì.

Scrivi il suo nome, così avrai la tua vendetta per tutti i soprusi che hai dovuto passare per colpa sua.

"La penna si trova al fianco del Death Note.
La prendo in mano delicatamente, esito qualche secondo poi mi decido, nella mia mente passano i ricordi legati a Lui, passa la sua immagine e quando è ben definita scrivo a caratteri cubitali il suo dannato nome e tutti i particolari dell'evento.
Non mi resta che fare una telefonata ed aspettare."

Non ti senti meglio adesso? Presto sarai libera.

Mi sento in colpa.

Passerà vedrai.

Piangeva sai?

Non abbastanza per scontare le sue colpe.

Già, io ho sofferto di più.

Esatto,adesso riposati, dovrai essere in splendida forma per quando ti annunceranno il fattaccio AHAHAHAHAHAHAHAH.

"Sono passati tre giorni.
Sua madre mi telefona per dirmi che Lui si è suicidato buttandosi con la macchina da una rupe, non ha lascianto neanche un biglietto per spiegare l'accaduto.
Non mi sento in dovere di dirle che le cose tra noi andavano male e che sono stata io a lasciarlo.
Partecipo al suo funerale più per dovere che per piacere, i suoi amici sono tutti lì e mi fissano male, uno dopo l'altro.
Mi considerano il motivo della sua morte e non hanno tutti i torti.
Ma alla fine del loro pensiero non mi importa niente, scrivendo ho solo fatto un favore all'umanità, la sua esistenza era inutile, parliamoci chiaro.
Torno a casa con l'aria fintamente addolorata, ne approfitto per rinchiudermi in camera mia e prendere il mio gadget preferito.
I due nomi sono perfettamente allineati."

Questa cosa mi creerà dipendenza lo sai vero?

Ti preoccupa?

Diciamo che non posso continuare ad uccidere tutte le persone che non sopporto o che odio.

Questo è vero però ammettilo, l'idea di poterlo fare ti fa sentire bene vero?

Meravigliosamente bene.

"Mi guardo allo specchio e sorrido malignamente.
Sì, mi fa sentire decisamente bene."

sabato 12 dicembre 2009

Desiderio di Morte

Un breve racconto ispirato a Death Note [Per chi non sapesse cos'è un Death Note: è un particolare quaderno dove l'uomo il cui nome vi è stato scritto muore dopo 40 secondi, per evitare casi di omonimia bisogna vere bene in mente il volto dell'uomo di cui si vuole scrivere il nome, è possibile inoltre aggiungere alcuni dettagli sulla morte entro un certo limite di tempo]






"Torno a casa per l'ennesima volta con gli occhi gonfi per il pianto, come al solito è stato Lui a farmi soffrire, tutte le dannatissime volte che sto male è solo colpa sua.
Dice di amarmi ma non sa dimostrarmelo...balle, in realtà Lui non sa fare una scelta e vuole avere due ragazze contemporaneamente, io e Lei.
Lei, e pensare che una volta eravamo amiche, per me era una delle più care che avessi, adesso invece la odio dal più profondo del mio cuore, la odio, la odio, la odio!
Ci ha presentati Lei ma speravo capisse che il suo atteggiamento rovinava fin dall'inizio il rapporto che ho con Lui, mi sbagliavo, la facevo più matura, che abbaglio che ho preso.
Se sparisse dalla faccia della Terra la mia vita sarebbe molto ma molto meglio, non mi vergogno a pensare certe cose, Lei deve andarsene ma non in un'altra città, nazione o continente, deve andarsene per sempre da questo mondo.
Non mi sento male a formulare questi pensieri, anzi, risvegliano in me la voglia di vendetta, pagherà per tutte le volte che mi ha fatto stare male; perchè solo io devo soffire eh? Perchè solo io!?!?
Mi butto distesa sul letto e per calmarmi ascolto un pò di musica con l'iPod, la prima canzone che sento fa parte della colonna sonora di Death Note, anime per il quale impazzivo questa estate.
La triste melodia mi calma un po', ma in me rimane ancora quel senso di sofferenza che tarda ad andarsene, mi alzo e prendo dalla scrivania il gadget del Death Note che ho comprato al Lucca Comics a Novembre, è ancora dentro la sua bustina perchè ho paura di sciuparlo.
Lo tolgo dalla busta e lo levo anche dalla scatolina dove è contenuto, l'odore di pelle arriva al mio olfatto quando finalmente il quaderno, uguale in tutto e per tutto a quello del cartone, viene tirato fuori.
Lo sfoglio con cautela, mi metto a leggere tutte le regole che ci sono prima del quaderno vero e proprio, rimango affascinata tutte le volte che le leggo, poi iniziano le pagine giallastre con su scritto i nomi scritti dal protagonista sul Death Note.
Accanto a me c'è una penna a sfera, la prendo in mano, la tentazione di scriverci sopra un nome è forte, e se funzionasse davvero? Be', saprei che nome scrivere...
La mia mano trema nel vedere i nomi prestampati sui fogli, la mia razionalità ha la meglio e poso la penna dove l'ho trovata."


Perchè non l'hai fatto?

"Sbarro gli occhi, per caso sento le voci?"

Perchè non l'hai fatto

"É la mia immaginazione, soltanto la mia immaginazione."

É realtà invece.

"Sono solo un pò suscettibile, niente di che, adesso chiudo gli occhi, faccio un bel respiro profondo e passa tutto."

Illusa, niente passa.

"Ok, io non sono pazza, sicuramente qualcuno mi sta facendo uno scherzo, non è possibile che io senta le voci!"

Sei ancora in tempo per scrivere QUEL nome su quel quaderno.

Chi sei?

Io sono te.

Non puoi essere me, io sono me.

Io sono te e te sei me, non puoi cambiare ciò.

IO sono ME.

Non lo metto in dubbio ma anche IO sono TE.

Cosa vuoi da me?

Io sono la parte di te più crudele, cosa voglio da te? Che tu scriva poche lettere su quel quaderno, lettere che vadano a formare un nome.

Questo significherebbe la sua morte.

Non è forse questo che più desideri?

Io non augurerei mai la morte a nessuno, nemmeno al mio peggior nemico!

Poco fa non la pensavi così, non tentare di resistermi, te l'ho detto, noi due siamo una cosa sola, quello che vuoi tu lo voglio pure io, tu sai cosa vuoi e guarda caso è quello che voglio io.

Non scriverò nessun nome su quel quaderno, è inutile, è solo un gadget, non crederai mica che funzioni sul serio?

E chi ti dice che è solo uno stupido gadget, funziona credimi.

Non lo farò!

Non fare così, pensa ai vantaggi che ne riceverai.

Stai cercando di convincermi ma non ci riuscirai!

Pensa a Lui, sarà distrutto, ma potrai essere TU a consolarlo...

"Mi blocco per qualche istante, quella parte di me ha ragione, se Lei non ci fosse Lui sarebbe tutto per me, non posso lasciarmi sfuggire un'occasione d'oro così ma potrò vivere poi con un peso simile sulla coscienza?"

Non farti paranoie, fallo e basta, tu sei dalla parte della ragione, è Lei che si è comportata male.

"É vero, Lei si è comportata male con me."

Guarda la penna che hai di fianco, aspetta solo di essere usata per scrivere un nome, solo un semplice nome, del resto mica potevi sapere che questo quaderno funzionasse veramente.

"Piano piano la voce riesce a presuadermi."

Sì, è solo un gadget, non potrebbe mai funzionare.

E poi se scrivi anche qualche dettaglio in più nessuno potrà mai venire a cercarti.

Sì, nessuno saprà mai che sono stata io.

Allora, scriverai quel nome?

Scriverò quel nome.

Non preoccuparti, ci sono io con te.

Grazie.

Vuoi l'iPod? So che ti piacerebbe farlo con quella musica di sottofondo.

Sì, sarebbe proprio in tema.

"Ho preso la penna e con il volume a tutto volume scrivo un nome sulla prima pagina del quaderno, aggiungo i primi dettagli che mi vengono in mente in quell'istante.
Finisco rapidamente, nemmeno 30 secondi, ho il fiatone, ancora non credo di avero scritto il nome di Lei sul Death Note."


E ora cosa facciamo?

Aspettiamo che ciò che hai scritto si realizzi, non ti preoccupare.

"Sto guardando la mia opera, mia madre mi chiama per alcune faccende, la mia vita scorre tranquilla come se non fosse successo nulla.
Devo solo aspettare.
La notizia mi arriva tre giorni dopo, mi chiama Lui piangendo, Lei è stata investita da un camion mentre era in macchina, io dall'altra parte del telefono rimango un pò scioccata, ha funzionato; cerco di consolarlo i tutti i modi, il giorno dopo partecipo ai funerali in seconda fila accanto al mio Lui, adesso finalmente è di nuovo mio, solo mio.
Dopo il funerale andiamo a casa sua, lo abbraccio con tutta la compassione e la dolcezza di cui sono capace e nello stesso tempo mi vedo allo specchio.
Un ghigno soddifatto si nota sulle mie labbra."


Vedi? Non ci voleva poi così tanto, la tua sofferenza è stata vendicata.

Sì.

Su, adesso sta con Lui e non temere, io non ti abbandonerò...

giovedì 10 dicembre 2009

The Poet And The Pendulum

Breve racconto ispirato all'omonima canzone dei Nightwish, tratta dal loro ultimo album.





Il poeta si stava rigirando nel sonno, ancora una volta quell’incubo, quel solito e incomprensibile incubo, lo tormentava. Schizzi di sangue, volti umani resi irriconoscibili da squarci di lama, indicibili sofferenze, urla; ogni notte il medesimo copione.
Il poeta sudava freddo, in qualche modo era consapevole del fatto che quell’orribile sogno era strettamente legato a lui e al suo passato ma non era in grado di darsi una spiegazione logica.
L’uomo si alzò di scatto dal letto, il brusco risveglio che seguiva la notte era diventata un’abitudine per lui, lentamente si tolse le lenzuola si dosso e si alzò in piedi, si fece una toeletta veloce e si mise al suo scrittoio, in attesa che la dolce musa della poesia facesse lui visita. Il poeta scriveva e scriveva, versi su versi, strofe su strofe ma niente gli era di suo gradimento; scriveva di getto, poi si soffermava a leggere cosa aveva partorito la sua mente e puntualmente accartocciava il foglio gettandolo da una parte della stanza, insieme alle tante sue creazioni rinnegate.
Viveva solo in una villa immensa e immersa nel verde dei boschi, c’erano molte stanze ma l’uomo era solito usarne due o tre, si spostava dal suo rifugio personale solo per lo stretto indispensabile, la villa era troppo lugubre e spaventosa per lui; polvere e ragnatele ovunque, l’oscurità regnava sovrana in quei lunghi corridoi e nelle stanze disabitate. Non si era mai chiesto che cosa ci facesse lì, per quel che ne sapeva lui era sempre vissuto in quella grande casa e solo in quel luogo era sicuro di poter ritrovare la memoria perduta.
Non sapeva chi fosse. Una sera si era risvegliato in quella stanza, sperduto e impaurito come un pulcino caduto dal nido, c’era silenzio, una tranquillità inquietante; a fargli compagnia solo il ritmico battito di un pendolo appoggiato alla parte di fronte il letto. Era un orologio molto particolare, non segnava le ore e i minuti; il quadrante era tutto bianco e dove avrebbe dovuto troneggiare il numero dodici c’era una linea rossa, forse punto d’arrivo di un’unica lancetta.


Stanco ed esausto il poeta si allontanò dal suo scrittoio per recarsi nella piccola cappella di proprietà della villa, appena fuori la casa e unita ad essa tramite un breve sentiero che passava attraverso quello che un tempo doveva essere un magnifico giardino.
Si inginocchiò davanti all’altare e mirando la croce intrecciò le dita delle mani sulla sua fronte, abbassò lo sguardo e pregò, pregò che i suoi incubi potessero avere fine un giorno, pregò di poter ritrovare la sua identità perduta.
Due occhi candidi lo osservavano giorno e notte senza che lui se ne accorgesse, occhi pieni di tristezza di chi sa e non può fare niente, due occhi di anima in pena che ancora non può raggiungere il paradiso; occhi di fantasma.
Il poeta ritornò nella sua camera il più velocemente possibile, non amava camminare per quei corridoi, aveva quasi sempre la netta sensazione di essere osservato; più volte si era voltato di scatto ed aveva intravisto come un pezzo di stoffa ondeggiare poco distante dalla sua persona. Non si sentiva al sicuro in quella villa,a volte percepiva lo strascichio di un mantello, altre volte il passo leggero di una persona; le prime volte faceva una ricognizione veloce di tutte le stanze e di tutti i passaggi ma c’era un punto oltre il quale non osava procedere. Era un andito più oscuro di tutti gli altri e un’odore sgradevole di sangue permeava le sue pareti, a circa un quarto dall’inizio c’era una grande tenda malandata che divideva le due parti, l’uomo non aveva mai trovato il coraggio di scostare il tendaggio e vedere che cosa si celasse dietro.


L’inconsistente presenza era al suo fianco, avvolta in un mantello nero come la notte, ancora non poteva lasciare il regno terreno ed era costretta a rimanere prigioniera di quel luogo; il volto femminile dello spirito si voltò verso il poeta e lo guardò con occhi colmi di disperazione, lei lo conosceva, lo conosceva bene e sapeva che quella condizione era una tortura per entrambi, non poteva agire liberamente ma poteva fare qualcosa molto importante, poteva guidarlo verso la giusta via.
L’uomo era intento a scrivere un qualcosa più simile ad un necrologio che ad una poesia quando sentì un fruscio alle sue spalle, si volse immediatamente ma non vide nulla, in quella stanza c’erano solo lui e il pendolo misterioso, che non segnava il trascorrere del tempo terreno. Si convinse che si trattava solo della sua immaginazione, quelle scritte funeree lo avevano condizionato molto.
Ancora un fruscio, un lamento; il poeta si alzò di scatto facendo cadere la sedia su cui era seduto, non poteva essere la sua fantasia, quella cosa era reale come lui, non seppe perché ma il suo sguardo era indirizzato all’orologio, a quello strano pendolo la cui lancetta ormai era vicina alla linea rossa, si avvicinò per osservarlo meglio e quello che vide lo fece sobbalzare e indietreggiare di un passo: il volto di una donna che piangeva lacrime di sangue era specchiato sul quadrante del pendolo. Doveva uscire da quella stanza, ormai non era al sicuro nemmeno lì.
Prese un passaggio a caso, guidato, forse, dal suono di alcuni passi che sentiva davanti a lui, c’era una presenza in quella villa e per un attimo il poeta pensò che dovesse essere la chiave di tutto, convincersene fu un attimo e con passo stavolta spedito si diresse verso il corridoio oscuro. Si bloccò per un secondo di fronte alla tenda color cremisi, strappata in più punti. Era impossibile che il vento che fischiava fuori dall’edificio entrasse dentro eppure qualcosa di molto simile fece scostare la tenda rivelando al poeta i suoi più oscuri segreti.


L’uomo deglutì di fronte a quello che gli si presentava agli occhi, corpi in avanzato stato di decomposizione giacevano scomposti per terra, le pareti sembravano dipinte con il sangue rappreso dei poveretti e una gelida atmosfera opprimeva quel posto.
Il poeta proseguì evitando i cadaveri pieni di insetti e parassiti, cercava di contenere i conati di vomito ma non riusciva a trattenersi per più di qualche minuto, la morte lo circondava.
Si fermò in prossimità dell’ultima stanza del corridoio, la porta era divelta e mezza aperta, il fantasma della donna era entrato dentro e anche se lui non poteva vederla lei gli indicò ugualmente il letto addossato alla parete perpendicolare alla porta d’ingresso.
Il poeta entrò con cautela, cercando di non spostare niente; c’era qualcosa di molto familiare in quella camera, dolci sensazioni riaffiorarono dentro di lui prima di morire alla vista di ciò che era steso sul letto.
Una donna dai lunghi capelli e un bambino appena nato al suo fianco.
L’uomo urlò dal terrore, iniziava a ricordare, si addossò alla parte opposta tenendosi la testa nelle mani.
Ora sapeva chi era e che cosa era successo in quella villa tempo addietro.



La villa è in festa, presto la moglie del poeta partorirà il bambino che porta in grembo, tutti i pochi servitori sono radunati lungo il corridoio dove la donna darà alla luce suo figlio. Il poeta è nella sua stanza, è nervoso; è giovane e non sa se sarà all’altezza del compito che la nascita di suo figlio comporterà, sa solo che ama profondamente sua moglie e che insieme a lei farà del suo meglio per crescere il loro erede.
Sta componendo un sonetto in onore della moglie e del figlio, vuole leggerglielo quando il bimbo sarà nato; l’aiutante della levatrice lo chiama a gran voce e gli annuncia che il momento è finalmente giunto.
Preso dall’euforia il poeta si alza di scatta e quasi corre verso la stanza adibita al parto, non trova nessuno lungo il suo cammino, tutti sono in attesa di fronte alla porta.
Arrivato trova la porta chiusa, sente le grida della moglie e vorrebbe entrare per prendere la sua mano e confortarla, esserle vicino. La governante gli suggerisce di rimanere fuori, la levatrice ha annunciato che sarà un parto difficile e non vuole seccature esterne.
Il poeta è preoccupato, fa avanti e indietro per tutto l’andito, i servitori si scostano al suo passaggio, cercano di tranquillizzarlo ma il terrore è sempre più radicato nell’animo dell’uomo.
Da un po’ non si sentono più le urla della donna, forse il parto è andato a buon fine ma non si sentono i vagiti del neonato, la porta della stanza si apre e la levatrice ne esce con uno sguardo tetro e oscuro, il poeta comprende ma non vuole accettare; entra per vedere con i suoi occhi, nel grande letto la sua donna giace immobile, accanto a lei è stato deposto il corpicino del bambino morto. Il poeta fissa il vuoto davanti a sé, ora è solo, sua moglie non è più insieme a lui e il loro figlio ha preferito seguire la madre verso il regno dei morti.
L’uomo grida più forte che può ma ciò non potrà ridargli indietro i suoi cari, si accascia sulle ginocchia e piange disperato, non vuole accettare.
La levatrice è dietro di lui e gli pone una mano sulla spalla, dice che le dispiace infinitamente e che ha fatto il possibile per salvare almeno il bambino ma il poeta non l’ascolta, ha un solo pensiero in mente in quel momento: versare sangue per riavere la moglie e il bambino indietro.
Con pacata lentezza si alza e si avvicina al tavolo dove è appoggiato un lungo tagliacarte, la levatrice pensa al peggio e gli si avvicina per bloccarlo, non permetterà che il suo padrone si ammazzi. Il poeta sente lo strattone della donna, il suo volto si tramuta in una maschera di ferocia e con un colpo ben assestato colpisce la levatrice al braccio.
La donna scappa, esce dalla camera ma il poeta è più veloce e le si avventa alla schiena ferendola più e più volte finché la morte non sopraggiunge. I servitori fuggono ma non serve a niente, il poeta li accoltella uno dopo l’altro senza che loro abbiano il tempo di salvarsi, la furia dell’uomo è devastante, non ha pietà per coloro con cui ha diviso parte della sua esistenza.
E mentre uccide l’ultimo degli uomini vede un piccolo orologio cadere dalla giacca insanguinata, la lancetta è esattamente sopra una piccola linea rossa.
Il poeta cade in ginocchio, la lama gli cade dalla mano, è confuso, non sa cosa gli sia preso, è fuori di sé; con le ultime forze prende una grande tenda e l’appende in modo da coprire l’orrore che egli stesso ha creato e barcolla fino al suo studio. Quando riapre gli occhi non sa chi sia ne dove si trovi.

Il poeta cadde rovinosamente a terra, ora rammentava ogni minimo particolare di quell’orrenda uccisione di massa, era disgustato da se stesso, non poteva tollerare ancora la vista di quell’eccidio. Lo spirito era ancora al suo fianco ma non si mosse quando l’uomo si alzò e corse via, in un attimo si trovò nello studio dell’uomo e contemplò il pendolo, la lancetta era molto vicina alla linea rossa.
L’uomo fuggì gridando e piangendo, uscì dalla villa e si addentrò nel bosco innevato, correva cercando di scappare da quell’orrore ma a un certo punto una fitta al petto lo bloccò e lo fece cadere a terra, Con la coda dell’occhio vide il suo pendolo in mezzo agli alberi e vide chiaramente che la lancetta si stava posizionando esattamente al posto della linea rossa; rivide sua moglie, allegra e spensierata come un tempo e con l’ultimo sbuffo di forza vitale implorò perdono per i suoi peccati.

La neve iniziò a scendere candida dal cielo e ben presto ricoprì con il suo bianco mantello tutto ciò che trovava, i rami si piegavano sotto il suo peso e ne facevano cadere in quantità; dentro alla foresta c’era silenzio, i grossi predatori erano in letargo e quelli piccoli si muovevano silenziosi lasciando orme che in breve tempo sarebbero scomparse.
Il poeta aprì incredulo gli occhi, si alzò in piedi e vide sotto di sé un grosso cumulo di neve, cerco di scostarla per capire che cosa ci fosse sotto ma non era in grado di toccarla, la mano passava attraverso come materia inconsistente. Si guardò intorno, poco lontano da lui c’era la donna che lo guardava con un misto di gioia e tristezza. L’uomo capì in un attimo. Era diventato uno spirito.
Il fantasma gli si avvicinò e gli sorrise, gli prese la mano e lo condusse ancora più dentro la foresta, dove la luce del sole non arrivava e il buoi faceva da padrona. L’oscurità li avvolgeva ma ormai il poeta non aveva più paura, adesso era di nuovo accanto alla donna della sua vita e non voleva più separarsene.
Alla fine del sentiero tenebroso che avevano percorso vide una potente luce farsi sempre più grande mano a mano che si avvicinavano, lei era al suo fianco e lo rassicurava con lo sguardo. Arrivarono in una grande valle in fiore, dove l’estate era perenne e gli uccellini cantavano ad ogni ora del giorno.
Il cuore del poeta traboccava di felicità, non poteva desiderare niente di meglio per lui e per lei. Con la coda dell’occhio vide verso ovest una grande foresta di pietra che ricopriva l’unica collina presente in quel luogo paradisiaco; gli alberi erano lugubri, assomigliavano a delle anime in pena, condannate per sempre in quella tetra forma, uomini che in vita si erano dannati di gravi delitti.
L’uomo teneva ancora la mano della sua amata ma aveva rallentato leggermente il passo, l’energia di quel bosco pietrificato lo attirava, era quello il luogo che gli era stato destinato alla morte, la donna continuava imperterrita nel cammino quando sentì la presa del suo compagno allentarsi e staccarsi definitivamente, si voltò lentamente e vide il poeta guardarlo con lo sguardo più dolce che le avesse mai rivolto. Non ci fu bisogno di parole per capire che le due anime si stavano congedando per sempre.
Il poeta abbassò la testa e si diresse verso la foresta, non si volse mai indietro, se avesse rivisto ancora la sua donna forse non avrebbe più avuto il coraggio di compiere il suo destino, l’aveva vista per l’ultima volta e gli era bastato per prendere quella decisione. A capo alto attraversò la foresta, alcuni radici iniziarono a sbucare fuori dal terreno e si avvinghiarono alle gambe dell’uomo, il poeta se ne liberò con fatica, prima di tramutarsi in un albero voleva scegliersi il punto migliore.
Le sue gambe iniziarono a farsi sempre più pesanti e iniziarono a piantarsi al terreno, il busto si allungò e le braccia si tesero in alto verso l’esterno, il volto sparì all’interno del tronco di un maestoso albero per ricomparire sotto forma di venatura, un volto sereno e pacifico.
La donna osservava cosa stava accadendo insieme ad altre anime che si erano radunate per l’occasione, non si era mai vista una cosa del genere in quel luogo; un grosso, enorme, albero di ciliegio stava nascendo proprio nel punto più alto della collina. Una lacrima scese dagli occhi della donna.
Un vento improvviso scosse i rami di quel nuovo albero colmo di fiori portando con sé petali profumati.

Benvenuti

Benvenuti, o voi che giungete fino a qua.
Io sono colei che regna incontrastata in queste terre, sono colei che l'anima creando mondi e personaggi, sono colei che decide della vita e della morte delle mie creature.

In queste terre troverete le mie storie, sedetevi dunque e immergetevi nella mia mente, lasciatemi un commento se la storia è stata di vostro gradimento oppure leggete silenziosamente e andate con qualche emozione in più.